Vorrei dire alla Me bambina che non ho mantenuto proprio tutte le nostre promesse, che so sempre cosa fare al momento in cui devo fare anche se, talvolta, nell’immediato mi sento spaesata ed incapace.
Vorrei raccontarle del fatto che la cioccolata mi piace ancora un sacco e che Mary Poppins è rimasta la mia icona di donna perfetta, nonostante da lei abbia appreso e mantenuto solo la capacità magica di fare di una borsa una casa portatile.
Vorrei riferirle che l’idea di madre che abbiamo sempre avuto, era l’immagine amorevole e semplicistica che spesso la società ci imprime, idealizzata e benevola e che nulla ha che vedere con l’ambivalenza e la fatica che realmente le madri di ogni tempo hanno da affrontare.
Vorrei rivelarle che oltre alla gioia, che mi avrebbe gonfiato gli occhi di lacrime guardando il test di gravidanza colorarsi di due lineette blu, anche la paura si sarebbe fatta materia scendendo, come un nodo, a graffiarmi la gola.
Cara piccola Sara, la gravidanza sarebbe stata per te proprio come la descrive la Jong quando dice che nessuno stato è così simile alla pazzia da un lato, e al divino dall’altro, perché nell’essere incinta, la madre è dapprima raddoppiata, poi divisa a metà e mai più tornerà ad essere intera.
Ed è per questo che i timori che avresti provato per il parto avrebbero avuto poco a che vedere con il male fisico delle contrazioni, e molto più con il dolore della separazione da quel bambino che cresceva dentro di te e che d’un tratto non ti avrebbe più seguita ovunque.
Lo avresti capito dopo.
Questa esperienza ti avrebbe donato la consapevolezza che ciò che rende realmente grandi le madri è l’attitudine ad assecondare il paradosso della maternità: essere felici di lasciare andare nonostante si vorrebbe trattenere, affidare i figli al mondo benché per venire al mondo siano stati corpo nel proprio corpo.
Avresti compreso che non tutto ciò che è commestibile nutre, che non sempre le madri sono capaci di gesti materni e che una sconosciuta, senza figli, avrebbe potuto insegnarti il senso della vita in una sala parto, stringendoti la mano e di fronte alla “fine” di quel tutt’uno che sei stata con il tuo bambino, ti avrebbe ricordato quanto tu sia brava a regalarlo al mondo.
“Spingi! Spingi!”, sarebbero sembrati semplici imperativi destinati al corpo, ma ti avrebbero consegnato tutta la forza incalzante per dirti: “Brava, così, lascialo andare, non lo trattenere…”
Voglio farti sapere, Sara, che allattare sarebbe stato per te fatica e dolore e che tutte quelle immagini eteree e gioiose di bimbi appagati e allattati da altrettante madri felici e soddisfatte, appartengono forse, a tante donne, ma non avrebbero rappresentato la tua esperienza di allattamento.
I capezzoli ti si sarebbero lacerati e avresti dovuto fare i conti con il desiderio di continuare ad allattare e con la sua controparte.
Avresti provato rancore per quel bimbo, il tuo (sì, proprio lui, quello che hai desiderato tanto, da sempre), che con voracità si sarebbe attaccato ai tuoi seni, e non per questo lo avresti amato di meno.
Avresti contato i minuti tra una poppata e l’altra pensando con angoscia alla prossima e a quella dopo. E quando ti saresti sentita prepotentemente spaesata ed incapace sul punto di sospendere, ti saresti accanita ancora una volta e avresti chiamato Monica Bielli.
Monica Bielli, la consulente all’allattamento di cui qualcuna ti aveva parlato ma della quale, eri certa, non avresti mai avuto necessità, perché allattare “è naturale…da che mondo e mondo lo fanno tutte le madri…” così tramandano le donne alle donne, anche la preghiera per eccellenza lo dice “ […] benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù […]”.
Avresti imparato che la natura alle volte non è naturale neanche a sé stessa.
Piccola Sara, per te l’allattamento sarebbe stata un’esperienza di sofferenza, apprendimento e crescita, ti avrebbe messo in contatto con la grande saggezza che il compromesso insegna.
Avresti messo da parte la figura della madre sorridente e ti saresti tirata il latte ogni tre ore per circa due settimane.
Dare il latte al tuo bambino, tirare il latte, dare il latte al tuo bambino, tirare il latte. Occuparti anche della tua bimba più grande, di poco più di due anni, con la quale non avevi avuto questi grandi problemi. Sentirti in colpa perché “Con lei tutto bene e con lui molto meno”. Fare pace con l’ideale di madre nutrice perfetta, ricordarti che tutto sommato Mary Poppins non si è mai trovata in queste circostanze.
Sara vs Mary, 1:0 per te.
L’esperienza di allattamento ti avrebbe regalato la bellezza di avere il supporto di una donna che ti sostiene ma non ti trattiene dentro stereotipi di “madre buona perché allatta”, da cui non ti senti giudicata, che con uno “Stai tranquilla, andrà meglio, andrà bene”, avrebbe reso quei giorni di stanchezza, più sostenibili.
Il tempo sarebbe trascorso, tic-tac, tic-tac, saresti passata al paracapezzolo (prima a sinistra, dove l’epidermide si era rimarginata, per poi toglierlo anche a destra).
L’esperienza di allattamento ti avrebbe spiegato che l’attaccamento tra te e tuo figlio non lo fa l’averlo attaccato al seno, ma il tenerlo tra le braccia.
E così, proprio dove lo hai appoggiato per la prima volta appena nato, sul petto, pensi che vorresti sapere che starà, in un futuro, quando tu non ci sarai più, in quel luogo caldo e accogliente che sono le braccia di una persona che si ama, perché il nutrimento, che è Amore, trascende ogni seno e ogni goccia di latte materno o artificiale.
Piccola Sara, io sono già felice che io e te abbiamo imparato questo.